expr:class='"loading" + data:blog.mobileClass'>

13 dicembre 2014

Settembre 2014 o "Ai bordi del letto"


Settembre 2014

A tu per tu con lo specchio, con immutato rancore. È così che passerà il suo tempo. Lo passerà a guardarsi; guardarsi male. Le pupille languide, ingrossate e del tutto spente, lei si guarda (male) e vede, è una carcassa incastrata nel sottobosco; contempla il riflesso con attenzione morbosa, ostinatamente nauseata. Non indossa altro che un paio di boxer sgualciti. Siede immobile e pensa secchio di vermi, carcassa nel sottobosco, calcinacci e polvere. Siede a gambe incrociate e lo specchio la ritrae nell'interezza, nella mediocre nudità di un corpo di donna, uno qualsiasi. Non c’è niente di mistico, niente di erotico in questa domenica fiacca in cui semplicemente sta, ai bordi del letto, seminuda e struccata, spettinata e triste. Si è recentemente imposta di non fumare in camera da letto; non ha voglia di alzarsi e quindi si guarda, male. Si biasima per l’imposizione di questa regola. Si biasima altrettanto per aver osato pensare di violarla. Perché è grande, grandissima nemica di se stessa e letteralmente scalpita per gettarsi in pasto alla propria perfidia. Se riusciste a vederla come la vedo io, direste che è stanca. Lo è. 

Concede una tregua agli occhi, serra le palpebre ed offre alla retina qualcosa che non sia il riflesso, carne umana e boxer sgualciti; dimentica secchio di vermi, carcassa nel sottobosco, calcinacci e polvere. Si protegge come può, con l’ignoranza e col buio. Nel buio. Non vede più niente, non pensa più niente. Forse solo alle voci. Tante e gentili. Non dà ascolto alle voci perché sono buone. Più buone di lei. Il suo riflesso la guarda così male perché sta pensando carcassa, calcinacci, cavallo stramazzato. È un delirio insopportabile, una tempesta impazzita di correlativi-oggettivi. Chiude gli occhi. Per non guardarsi mentre si guarda male. Per non pensare. Non pensare che più della testa più delle reni più delle ossa fa male il vivere. Foglia riarsa, statua nel meriggio. Il lamento straziato di una vecchia, al di là delle pareti, nel vicolo stretto e buio che conduce alla stazione. Tutto si rivela sempre all'altezza dello squallore generale ed è ok, è davvero ok, sono anni che fondamentalmente non le importa. Solo che non sempre sa resistere, capita che si lasci andare al dolore. Ogni tanto. Quel che basta per sapersi ancora pancia, sangue, cuore. Viva.

Bella. Sei molto bella. Come sei bella. Bella. Dentro e fuori. Le voci nel buio. Sono voci reali, di persone cosiddette vere. Sono voci di uomo, la prima è quella del Padre. Bella. L’aggettivo si è presentato con frequenza sempre maggiore con il protrarsi degli anni, del tempo passato su questo mondo. Ne accoglie il suono con immutata perplessità, maligno scetticismo. Così è sempre stato, così sarà sempre. Detestarsi è una cosa seria. È un lavoro metodico, faticoso, da svolgere ogni giorno con rinnovata energia. Volersi male è la cosa che le riesce meglio. Non c’è clemenza nei propri confronti che possa accettare. “Clemente con me stessa non lo sono stata mai”, sentenzia, tra il divertimento e la compassione. Tracotante e magnanima sì, a volte, ma clemente proprio mai. Oggi è giornata di boxer sgualciti, di digiuno, di accidia travestita da esistenzialismo ignorante. Oggi non ha niente da fare, non in questo tardo pomeriggio di domenica. Volersi male esige altissima concentrazione, è un’attività impegnativa, a cui dedicarsi quotidianamente in perfetto silenzio, meditando, meglio se in piena luce.

“Ho la faccia di chi ha dormito per vent'anni sotto a un sasso”. Sei così bella. “C’è in me qualcosa di viscido che si contorce su se stesso. Voi non lo vedete ma io sì. Andate a farvi fottere.” Patetica deficiente ai bordi del letto, che si guarda da fuori, si guarda male. Il corpo è pallido, sterile come una pietra. Tutto si rivela sempre all'altezza del proprio squallore, se fosse un albero direste che è una betulla a ridosso della tangenziale. Ha un ematoma sulle gambe, un altro sui glutei. Intravede la peluria bionda delle cosce, le pellicine rosicchiate sulla punta delle dita, le imperfezioni della pelle. Se potesse, e può, pagherebbe qualcuno; un uomo grande e grosso che le spacchi la faccia, quell'intollerabile vuoto. “Rompi le ossa, strappa le braccia, riduci a brandelli il corpo, questo sacco straripante di niente”.

C’è una ragazza nello specchio, che la odia - mentre la ragazza con gli occhi chiusi è da qualche parte, dentro se stessa. Ci sono posti dentro se stessi che sono come negozi abbandonati, immensi magazzini chiusi. Calcinacci e polvere. Luoghi da tempo dimenticati. Non forzerà le serrature e nemmeno voi dovreste. Perché è pericoloso? No. Entrate pure, ma non c’è niente da vedere. Questo è soltanto il posto dove esibiva le cose più belle, la parte più vera. “Non è rimasto molto, qui, di quello che una volta era. È vuoto. È noioso. Non ne vale la pena. Andiamocene. Al parco, ai caffè letterari, agli eventi esclusivi, ai concerti, alle manifestazioni, andiamo a divertirci.”

Ed è pensando agli eventi, al parco, ai caffè letterari, ai concerti e alle manifestazioni che si stende, piano, sul materasso caldo dove si addormenta, immediatamente, accompagnata da un vecchio orso di peluche e un esercito silenzioso di fantasmi. Ed è nel sonno che ritrova tutto, ritrova le cose che servono a tollerare. Tollerare lo specchio. Tollerare la farsa. Tollerare la vita, il male che fa. Ritrova il padre, sei bella, le albe, l’orgoglio, le sue stesse mani che non graffiano né spolpano ma accarezzano, timide, le tempie di un uomo che dorme. Nelle lenzuola ritrova, dopo tanta guerra dopo tanto odio, la quiete  – che è persino meglio della speranza. Perché il sonno è vita. E la domenica è terminata. 

20 agosto 2014

Agosto '14



Milano, 3 Agosto 2014

Questo è l’ultimo giorno dei miei ventiquattro anni e non mi sono presentata all'appuntamento col dovere – crescere, farlo sapere a tutti. Sto lavando i piatti che sono tazze, bicchieri, cucchiaini incrostati di zucchero. Stoviglie. La lavastoviglie è rotta, da mesi. Afferro gli oggetti uno a uno, insapono sciacquo risciacquo insapono sciacquo risciacquo, la tazzina gialla – la mia preferita. Sbeccata. Quel giorno che un’ape è entrata dalla finestra mentre cantavo di Marinella la storia vera, le mani bagnate. Lavo i piatti ed è quiete, automatismo e cura. Quando gli elastici per capelli che porto al polso sinistro si bagnano li sposto con i denti all'altezza del gomito. È fondamentale che gli elastici per capelli siano sempre al loro posto, sul polso sinistro – e tra i capelli, naturalmente. È fondamentale che gli elastici non si abissino tra le lenzuola, che non si perdano negli altrui divani. Gli elastici hanno il diritto e il dovere di tornare a casa. Con me. È fondamentale non lasciare tracce, non lasciare oggetti, non lasciarsi e basta, raccogliere le proprie cose e andarsene, l’anima arrotolata nelle tasche, il vuoto che strilla dentro e fuori nelle vie afose della città. 

Rassetto casa lentamente tocco le superfici, gli oggetti, come non fossero del tutto miei ed effettivamente non lo sono. La casa non è mai cambiata. Sono 25 anni meno un giorno che la casa semplicemente è e io, dentro di lei, sono. Sono me, mentre passeggio a piedi nudi e mi intravedo negli specchi, sempre uguali, sempre gelidi. Rassetto casa, rifaccio il letto. Il talamo. Sprimaccio i cuscini, cuscini al plurale per un corpo solo, un cranio solo, un’unica fronte sudaticcia un unico paio di braccia, di gambe, di labbra. Liscio le federe sotto le dita e penso che di questi 25 anni è lì che riposano le cose più vere. Le cose che si fanno, nei letti. Nei letti si nasce e talvolta, spesso, si muore. Nei letti più di tutto si legge, si dorme, si morde, si piange. Nei letti si ride e ci si stende, si giace, nei letti soprattutto si sta ed è nei letti (come nei cimiteri e in generale nei luoghi dedicati al riposo) che avviene la vita – il fluire, se ci pensate, è quasi tutto tra le lenzuola. Di questi 25 anni ricordo chiaramente i giorni cominciati nel letto e nel letto conclusi e poi qualcosa, ben poco, immagini che sono avvenute fuori mentre, pare, vivevo.

Gli ultimi mesi li ho passati seduta sulla riva di un fiume e aspettando, diligentemente, che passasse il mio cadavere, qualcosa scritto in una bottiglia. Ma sto mentendo. Non ho aspettato né mi sono seduta. Non c’è nessun fiume nessuna riva, eppure c'è il cadavere - sono io. Io, nel consueto letto accanto alla finestra dove si è consumato lo spettacolo dei giorni, uno dopo l'altro ho guardato trascorrere i minuti e così è arrivata, esplosa, prosperata la bella stagione. In un alternarsi di raggi di sole, di luna, di piogge, di fulmini, di venti il mio corpo è rimasto lì dove doveva essere, nel letto vuoto, a rabbrividire di freddo. Esclusi dal torpore non ricordo che pochi istanti: quelli in cui voglio recuperare l’elastico per capelli, afferrandolo appena con le dita o coi denti, e la scritta che leggo ogni giorno ogni sera quando la ragazza (io?) lascia la casa, il cadavere, il letto e va dove la portano i piedi. Sei felice? La domanda la rivolgono un paio di occhi immensi, neri, insanguinati, vacui – del tutto identici ai miei. Quel muro è tutti i muri del mondo e ossessivamente, ogni giorno, lui domanda. Sei felice? Sei felice? Sei felice? Dimmi, Benedetta o Vanna o chi per te, sei felice?

Ci sono cose che devo ancora fare, che avrei dovuto fare. Ma una lavastoviglie o una patente sono poca cosa rispetto al pigiama e ai fogli che ho lasciato marcire sul comò, impossibilitata come sono nello spostarmi, nello spostarli. Dovrei prenderli con queste mani, trovare una scatola che li contenga. Il fatto è che sono cadavere, non è nella mia natura muovermi. Inoltre è delle mani, proprio delle mani che si trattava, capite? Sono state le mani. Che si sono cercate. E poi strette. Con le mani lui sapeva comporre e scolpire piccoli pezzi di carta, erano mani che attraverso la manipolazione degli oggetti comunicavano imbarazzi, concentrazione, talvolta rabbia, quasi sempre amore. Con le mani arrotolava le mie sigarette, riparava i barattoli dello zucchero. Servono mani per muovere e rimuovere gli oggetti, quelli che hai lasciato sparsi per casa, i tuoi libri (non temere) sono al sicuro ma quel pigiama, mi spiace, non ho potuto garantire per lui. Ha preso l’odore di polvere, di quadri, di pagine, l’odore di mio padre e di suo padre prima di lui. Ha preso l’odore della Casa e non è che un cencio abbandonato – solo pochi mesi fa aderiva al tuo corpo che aderiva al tuo odore che aderiva al mio letto che aderiva ai miei mondi, tutti quanti, di cui tu eri signore e prigioniero. Non c’è stato tempo di restituirsi pigiami, non c’è stato tempo per le recriminazioni, il paziente non ha sofferto e se ha sofferto l’ha fatto in silenzio e in quel silenzio io ho potuto addormentarmi.

Ho 25 anni tra poco, a volte penso che la vita per come la conoscevo si sia spenta il giorno in cui ho spostato il suo pigiama dal letto e sul letto mi ci sono stesa io. Tutto ciò che è avvenuto dopo è avvenuto e basta, al di fuori di me, che non ho mai abbandonato il letto né ho smesso di fissare quel pigiama, momentaneamente posto sul comò, sotto le miniature delle prostitute parigine. Qualcosa lo ricordo. Qualcosa appena. Ho perso un elastico per capelli mentre bombardano Gaza e i bambini poveri perdono gli arti. Io perdo un elastico per capelli, bombardano Gaza, piango perché bombardano Gaza piango per tutti gli elastici, gli arti, le cose perse. Gli elastici per capelli, ne sono certa, uno è andato perso e agonizza tra i riccioli di polvere di una casa non mia. Le macerie da niente che infestano gli angoli, è l'agosto del 2014, da qualche parte bombardano. Bombardano Gaza. Il tonfo dello spazzolino da denti quando viene lasciato cadere nel bicchiere, un rumore come di fine, come di bombe, un rumore che fa paura perché legarsi – legarsi fa paura.

I mesi che hanno portato al compimento dei miei primi 25 anni sono tutti tra gli oggetti. I pigiami e gli elastici. Le tazzine del caffè e le federe. Gli accendini e le lenzuola. I ricordi più autentici e veri dei mesi che hanno portato al compimento dei miei 25 anni sono le cose che ho toccato, prestato, perso. Un accendino di nessun colore, dalle mie mani ad altre mani, gli accendini sono oggetti pericolosi. Non ci sono traguardi né date c’è solo il giorno in cui ho sbeccato una tazzina e quello in cui ho perso un elastico e quello in cui ho prestato un accendino e quello in cui ho spostato un pigiama e non sono state solo le mani ma il viso, affondato nella stoffa fredda – gli occhi asciutti, disperatamente neri; sono stati giorni, mesi di brutte lettere d’amore non richieste inchiodate alla porta della Casa come minacce, e quella domanda che mi percuote. Sei felice? Sei felice? Sei felice?

No. Non lo sono. Non lo ero nemmeno prima. Ma ho una valigia ancora aperta dove ho sapientemente impilato i miei vestiti più belli, le scarpe, i profumi, le forbicine, la lima per unghie, la spazzola, i libri. Ho un biglietto per il Messico e domani ci vado. Gli elastici per capelli sono tutti in una scatolina che verrà insieme a me e insieme a me tornerà a casa, tra un paio di settimane. Ad aspettarmi non ci sarà niente, solo l’odore di chiuso. Ad aspettarmi non ci sarà nessuno, gli occhi vacui della faccia davanti alla stazione. Ad aspettarmi ci sarà la Casa, grande e vuota, triste e amata. Ci sarà la mia tazzina preferita quella gialla, quella sbeccata, rotta in un giorno qualsiasi. Ci sarà il letto. E su quel letto non ci sarà nessuno, nemmeno io; perché adesso mi prendo per mano, adesso mi porto via. Non so esattamente dove sono stata ma finalmente io mi vedo, mi vedo, ho prestato accendini recuperato e perduto elastici per capelli sbeccato tazzine e venduto l'anima alle pieghe dei gomiti. Dormivo, come morta, mentre bombardano Gaza. Sono venuta a svegliarmi, sono venuta a prendermi. Sono io, giaccio immobile nel letto di sempre, mi guardo con occhi asciutti. "Vieni" mi dico e arrivo, mi alzo, sono. Sono io, mentre vado incontro ai cieli del Messico. Mentre parto per un'estate diversa, nuova, nella mia vita diversa, nuova. Forse infelice. Ma nuova. Sono io. Integra, insieme a me.

Statemi bene.
Vanna
(da qualche parte, in Messico)

28 giugno 2014

"La verità"


Questo letto è molto grande io sono molto piccola. Questo letto è freddo come una bara io sono fredda come un morto. Questo letto è vuoto. Schiumo rabbia mentre (non) piango di rancore, mi contorco tra le lenzuola come un ragno, affondo la testa nel cuscino e urlo perché a piangere, poco ma sicuro, non ci riesco. Poi taccio. Infine penso. Faccio un'esame di coscienza.

Se cerchi la verità sei sul blog sbagliato. La verità chiedila ad altri, a quelli che hanno un’opinione su tutto e, cosa ancor più straordinaria, sono assolutamente certi che la loro opinione sia quella giusta. E la difendono. Anche quando farebbero bene a stare zitti. Io dal canto mio non so niente, so meno di Socrate che sapeva di non sapere. Io forse so. Più probabilmente non so. Non capisco. Non desidero capire, farmi un’opinione, persuadervi che sia quella giusta.

Non c’è niente, niente che io abbia mai saputo. Perché di niente mi è mai importato. Preferisco non interrogarmi troppo sul passato, sul presente, sul futuro. Preferirei non interrogarmi affatto. La verità non può essere spiegata, la verità sulla mia (e la vostra) sudicia stanca vita mi è oscura e non mi resta niente al di fuori del tangibile. I cimiteri mi piacciono perché lasciano segni evidenti delle vite trascorse ed è nella pietra che sta la verità. Quelle persone sono morte e anche noi moriremo, almeno questo è indiscutibilmente vero. Mi piacciono i cimiteri perché sono luoghi di pace dove il silenzio fa da padrone dove non c’è niente di lugubre perché nulla vi è di lugubre nel riposo. Polvere siamo polvere torneremo e se ci fosse un Regno Dei Cieli, ma non c’è, ce ne occuperemo poi e non sarà compito nostro effettuare una qualche selezione all'ingresso. Noi saremo morti. I morti non giudicano e nemmeno ascoltano. I morti giacciono ed è la cosa che sanno fare meglio. 

Ho preferito i cimiteri alla verità dunque non fidatevi di me. Delle mie parole. Di questo blog che non vale niente, non è niente, non desidera essere niente. Sono troppo occupata, io, per regalarvi un'opinione convincervi che sia quella giusta. Ho molto da fare, lavorare e sezionare il mio tempo tra l’osservarmi i piedi completamente in botta, tener bordone, gironzolare (preferibilmente per cimiteri, ma non solo), specchiarmi nei vetri sui mezzi pubblici. Solo nella noia mortale del viaggio in metropolitana rendersi conto di quanto c*zzo si sono fatte grosse le mie tette, quanto sembra enorme il mio sedere e poi i fianchi, la pancia, persino il viso. Florida come una giovane donna gravida invece no. Indiscutibilmente e del tutto ovviamente no. Perché l'appuntamento con la colpa del proprio sesso è vero. Il sangue è sempre vero. Come vera è la fame. 

Mio Dio, perché ho così tanta fame? Di cose. Di cibo. Del sapore del gelato, quello in vaschetta mangiato col cucchiaino, che scende per la gola. Freddissimo, dolce, pieno, consolante, esplosivo. E poi di quello della pasta, della carne, della frutta, del vino. Ho fame di cose, di tutte le cose. Come una scheggia impazzita come un animaletto schizofrenico vago, sudo e cerco cibo a volte soltanto un rifugio. Lo trovo nei libri, almeno loro. L’unica valida alternativa alle mille voci del quotidiano che invitano a peccare, a spassarsela. I libri funzionano ma non mi salveranno dal partecipare al Party della Vita e dunque non sazieranno la fame né aiuteranno con quell'altra storia della verità. Montale predicava l’arte della rinuncia e poi tradiva le sue donne e le tradiva tutte. Si piagnucolava addosso e non fate finta signori, no non fate che non sia vero. Anche il poeta preferito può rivelarsi un grandissimo minchione ed è più o meno lì che sta la verità.

In metropolitana. Quando sai di non essere incinta così come sai di essere solo ingrassata. E te ne rendi perfettamente conto. E può darsi anche che non te ne freghi (più) niente e non è esattamente una conquista. Nello stesso istante realizzi che Montale altro non era che un talentuoso imbonitore, forse solo un arrogante bastardo che non sapeva tenerselo nei pantaloni, un pusillanime pieno di niente che ti avrebbe certamente fatta soffrire. E anche che non scriverai mai romanzi perché quelli sono per chi crede di sapere la verità. La verità è grottesca e infatti qualcosa di vero c’è, l’avete appena visto, qui elencato: la morte, il sangue, la fame. Dunque è vero e grottesco il tuo corpo, accaldato e fuori forma, che sta rigido e vigile con gli occhi spalancati riflessi nel vetro del metrò. Sono veri i piedi piccoli affaticati doloranti fasciati nei sandali da zingarella; ed è vero anche quel vago bagliore angosciante, la patina di sudore sulle cose del mondo. Sono vere le albe luminose che emergono dalle finestre nelle case degli altri e sono vere le tue gambe nude che si accartocciano su loro stesse nel dormiveglia. Sono vere le bollicine nella birra, gli spasmi e i brividi, i fulmini al di là delle nubi, vera è la pioggia la nicotina il sapore dell'aria. Sono vere infine le lacrime, quelle che in effetti hai prodotto, copiose e irrefrenabili, durante quella serata con le amiche. Piangevi. Dal ridere. Crepare sì, ma dal ridere.

Più di ogni altra cosa sono vere le lenzuola in cui ti stai contorcendo ed è vero questo letto. Grande, freddo, vuoto, ma mio. Ed è altrettanto vero che non mi sono arresa, che non intendo farlo. Perché non sono morta dunque non mi sono ancora specializzata nel giacere, dunque non mi resta che vivere. E sbellicarmi. Perché la (mia) verità è grottesca e fa ridere.

Ma se la stai cercando sei sul blog sbagliato.

Anche stavolta, statemi bene. 

3 maggio 2014

Venticinque anni e dintorni

Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni 

Giovane. Ma non troppo. È così che mi sento. È quello che sono. Giovane, perché ho ancora gli sconti per i musei e perché hanno preso a chiamarmi “Signorina” invece che “Ehi tu”. In agosto saranno venticinque. Solo venticinque, come dicono alcuni. Già venticinque? Come dicono altri. Di solito i nonni. Mia nonna a Pasqua ha acceso una sigaretta, mi ha guardata con immenso amore e poi ha detto, orgogliosa ma triste “Sei invecchiata”. Poi ha aggiunto “Sei donna. Ma non esagerare”. Sulla prima affermazione sono quasi contenta, sia io che lei abbiamo infinita stima dell’invecchiare. E sulla seconda beh… è vero, sono donna. Di recente sul treno mi sono seduta tra quattro signore sposate sui quaranta e una classe di quattordicenni. Vero che non somigliavo alle sciure, ma non somigliavo nemmeno alle tuse. Le ragazzine, bruttarelle ma mai quanto me alla loro età, mi guardavano curiose. La loro curiosità era del tutto ricambiata: dieci anni fa non esistevano i leggins. Imbruttivamo i nostri portentosi sederi da adolescenti in jeans sfasciati, larghissimi e a vita molto bassa. Tutti gli adolescenti si vestono male. E anche se loro erano fresche, erano scintillanti, erano giovanissime io sono ben felice di non essere più una (quella) ragazzina e quasi contenta di essere “invecchiata”.

Non siamo più noi i giovanissimi. I giovanissimi sono nati negli anni ’90 e negli “anni zero” (fa strano, vero?). Noi siamo quelli degli ultimissimi anni ’80 primissimi ’90. Quelli che si affacciano al mondo del lavoro, di ‘sti tempi, e sappiamo da soli quant’è deprimente.  Intorno ai venticinque anni. Giovani. Ma non giovanissimi. Degli squallidi ibridi. Come una seconda adolescenza senza crescita sparsa di organi, peli, sudorazioni e sbalzi d’umore. Con qualche lira e, si spera, qualche risorsa in più. Perché venticinque anni e dintorni non sono moltissimi, ma qualcosa abbiamo avuto tempo d’impararlo. Abbiamo avuto tempo d’imparare con Amy Winehouse, inscenando la guerra con le vite degli altri, che “L’amore è un gioco in cui si perde”. Forse stiamo anche imparando a vestirci.

Venticinque anni non sono solo sesso, droga, alcol e rock’n’roll (lo sono solo nei vostri ricordi o nei vostri desideri). Venticinque anni sanno essere anche tristi e soli. Il dolore, come tutto ciò di cui la vita abbonda, è strano e ineluttabile, in venticinque anni ho imparato anche questo. Si presenta sotto forme diverse. Sono sempre stata poco incline al dolore, gli ho preferito la mera rassegnazione che mi tormenta da quando ero bambina. Lo accetto come tutto, come la morte, come la vita. Il dolore cambia a seconda delle età e a venticinque anni hai maggiori difese. Il disincanto nei confronti di cose fallaci come l’amore è già stato superato.  Il distacco, l’allontanamento, i dubbi e il cuore spezzato sono una cosa plausibile, il più delle volte già affrontata o comunque per me è così. Probabilmente è così anche per voi. Mediamente il primo amore lo si conosce intorno ai quindici anni, e ne sono già passati dieci. Abbiamo avuto il nostro tempo per comprenderlo. Sapete di cosa parlo, conoscete la delusione che si prova quando qualcosa finisce.

Almeno a venticinque anni il dolore può essere meschinamente evitato mediante numerosi aperitivi, notti brave e una buona dose di cazzate. A venticinque anni, se si è fortunati, si è abbastanza vecchi da avere un lavoro e forse la diversità sta tutta lì. Quando lavori è come se la tua vita fosse improvvisamente, beh, tua. Io non vivo coi miei genitori dunque dispongo dell’esistenza quasi del tutto liberamente. Oltretutto il lavoro non ti consente di piangere con la testa tra le braccia tutti i giorni come quando andavi a scuola o (non) andavi all’università. Anzi, a mio modestissimo parere è la cura a tutti i mali, banalmente permette di concentrarsi su altro. Ho avuto modo di imparare anche questo. Che risultati (#sarcasmo).

Il fatto è che sono stata molto tempo con la sottoscritta ultimamente, da brava psicopatica. Ho avuto modo di fare lunghissime conversazioni con me medesima, mi sono trovata un po’ pedante ma tutto sommato divertente e mi sono offerta da bere qualche Martini e concessa piacevoli libertà che, lo sento, a breve devasteranno per sempre il mio corpo e la mia anima. No, senza essere drastici: semplicemente a venticinque anni si impara, come dire, a gestire il dolore. E a trovare una strada. Trovando strade, è una prassi, si perdono cose. Forse impari a gestire il dolore ma rinunci, d’un tratto, alla tua parte più morbida e l’amore non lo sai più fare. A differenza del dolore, non lo sai più gestire. O forse non l’hai imparato, anche se ti sembra di averlo sempre saputo. Io l’amore lo so, ma non riesco a scriverlo. Ce n’è stato tanto, tanto davvero in questa giovane vita. C’è stato anche il resto, le solite cose: il dolore la rabbia la cattiveria – soprattutto la mia. Eppure io l’amore lo so, e so anche che finisce. Che è un gioco in cui si perde. Che è un gioco a cui per ora non voglio più partecipare. Amore, Cupido, Eros, Venere chiunque tu sia. Stammi alla larga. Lasciami in pace. Non le voglio più le coccole, le gelosie, il sentirsi completamente responsabili e / o dipendenti da qualcuno che non è nemmeno un nostro parente, difficilmente è amico di vecchia data eccetera. Non voglio. Non è che sono ferita, spaventata o insicura: solo non voglio. Non ora. Perché sono triste. Forse non si vede, perché quando sono triste io faccio di tutto per rendermi felice. E magari ci riesco. Isterica, chiacchierona, con la battuta pronta. “Ciao sì ne ho fatta fallire un’altra, ha-ha ”. Però il dolore non si nega. Il dolore, a differenza dell’amore, quello lo so scrivere. Ma non è del dolore che ho scritto perché quello, come sempre, è soltanto mio.

Sono stata molto tempo con la sottoscritta ultimamente. Ho fatto aperitivi da sola nei bar, al tramonto, senza libri né compagnia. Ho guardato i volti, ascoltato i rumori. E poi ho ripreso a uscire di casa. È inevitabile. Ci ho puntato all’ascetismo cosmico ma L’immane farsa umana mi ha tirata (di nuovo) dentro. E il loro "bla bla bla" (sì Sorrentino) non è più un fastidio ma un sottofondo desiderato, che zittisce le cose. 

Sono stata sola con me stessa e ho passeggiato, lavorato, letto e pensato molto ai miei (e in parte ai vostri) venticinque anni. Poi ho provato a scriverli. 
Statemi bene.

Vanna