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3 maggio 2014

Venticinque anni e dintorni

Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni 

Giovane. Ma non troppo. È così che mi sento. È quello che sono. Giovane, perché ho ancora gli sconti per i musei e perché hanno preso a chiamarmi “Signorina” invece che “Ehi tu”. In agosto saranno venticinque. Solo venticinque, come dicono alcuni. Già venticinque? Come dicono altri. Di solito i nonni. Mia nonna a Pasqua ha acceso una sigaretta, mi ha guardata con immenso amore e poi ha detto, orgogliosa ma triste “Sei invecchiata”. Poi ha aggiunto “Sei donna. Ma non esagerare”. Sulla prima affermazione sono quasi contenta, sia io che lei abbiamo infinita stima dell’invecchiare. E sulla seconda beh… è vero, sono donna. Di recente sul treno mi sono seduta tra quattro signore sposate sui quaranta e una classe di quattordicenni. Vero che non somigliavo alle sciure, ma non somigliavo nemmeno alle tuse. Le ragazzine, bruttarelle ma mai quanto me alla loro età, mi guardavano curiose. La loro curiosità era del tutto ricambiata: dieci anni fa non esistevano i leggins. Imbruttivamo i nostri portentosi sederi da adolescenti in jeans sfasciati, larghissimi e a vita molto bassa. Tutti gli adolescenti si vestono male. E anche se loro erano fresche, erano scintillanti, erano giovanissime io sono ben felice di non essere più una (quella) ragazzina e quasi contenta di essere “invecchiata”.

Non siamo più noi i giovanissimi. I giovanissimi sono nati negli anni ’90 e negli “anni zero” (fa strano, vero?). Noi siamo quelli degli ultimissimi anni ’80 primissimi ’90. Quelli che si affacciano al mondo del lavoro, di ‘sti tempi, e sappiamo da soli quant’è deprimente.  Intorno ai venticinque anni. Giovani. Ma non giovanissimi. Degli squallidi ibridi. Come una seconda adolescenza senza crescita sparsa di organi, peli, sudorazioni e sbalzi d’umore. Con qualche lira e, si spera, qualche risorsa in più. Perché venticinque anni e dintorni non sono moltissimi, ma qualcosa abbiamo avuto tempo d’impararlo. Abbiamo avuto tempo d’imparare con Amy Winehouse, inscenando la guerra con le vite degli altri, che “L’amore è un gioco in cui si perde”. Forse stiamo anche imparando a vestirci.

Venticinque anni non sono solo sesso, droga, alcol e rock’n’roll (lo sono solo nei vostri ricordi o nei vostri desideri). Venticinque anni sanno essere anche tristi e soli. Il dolore, come tutto ciò di cui la vita abbonda, è strano e ineluttabile, in venticinque anni ho imparato anche questo. Si presenta sotto forme diverse. Sono sempre stata poco incline al dolore, gli ho preferito la mera rassegnazione che mi tormenta da quando ero bambina. Lo accetto come tutto, come la morte, come la vita. Il dolore cambia a seconda delle età e a venticinque anni hai maggiori difese. Il disincanto nei confronti di cose fallaci come l’amore è già stato superato.  Il distacco, l’allontanamento, i dubbi e il cuore spezzato sono una cosa plausibile, il più delle volte già affrontata o comunque per me è così. Probabilmente è così anche per voi. Mediamente il primo amore lo si conosce intorno ai quindici anni, e ne sono già passati dieci. Abbiamo avuto il nostro tempo per comprenderlo. Sapete di cosa parlo, conoscete la delusione che si prova quando qualcosa finisce.

Almeno a venticinque anni il dolore può essere meschinamente evitato mediante numerosi aperitivi, notti brave e una buona dose di cazzate. A venticinque anni, se si è fortunati, si è abbastanza vecchi da avere un lavoro e forse la diversità sta tutta lì. Quando lavori è come se la tua vita fosse improvvisamente, beh, tua. Io non vivo coi miei genitori dunque dispongo dell’esistenza quasi del tutto liberamente. Oltretutto il lavoro non ti consente di piangere con la testa tra le braccia tutti i giorni come quando andavi a scuola o (non) andavi all’università. Anzi, a mio modestissimo parere è la cura a tutti i mali, banalmente permette di concentrarsi su altro. Ho avuto modo di imparare anche questo. Che risultati (#sarcasmo).

Il fatto è che sono stata molto tempo con la sottoscritta ultimamente, da brava psicopatica. Ho avuto modo di fare lunghissime conversazioni con me medesima, mi sono trovata un po’ pedante ma tutto sommato divertente e mi sono offerta da bere qualche Martini e concessa piacevoli libertà che, lo sento, a breve devasteranno per sempre il mio corpo e la mia anima. No, senza essere drastici: semplicemente a venticinque anni si impara, come dire, a gestire il dolore. E a trovare una strada. Trovando strade, è una prassi, si perdono cose. Forse impari a gestire il dolore ma rinunci, d’un tratto, alla tua parte più morbida e l’amore non lo sai più fare. A differenza del dolore, non lo sai più gestire. O forse non l’hai imparato, anche se ti sembra di averlo sempre saputo. Io l’amore lo so, ma non riesco a scriverlo. Ce n’è stato tanto, tanto davvero in questa giovane vita. C’è stato anche il resto, le solite cose: il dolore la rabbia la cattiveria – soprattutto la mia. Eppure io l’amore lo so, e so anche che finisce. Che è un gioco in cui si perde. Che è un gioco a cui per ora non voglio più partecipare. Amore, Cupido, Eros, Venere chiunque tu sia. Stammi alla larga. Lasciami in pace. Non le voglio più le coccole, le gelosie, il sentirsi completamente responsabili e / o dipendenti da qualcuno che non è nemmeno un nostro parente, difficilmente è amico di vecchia data eccetera. Non voglio. Non è che sono ferita, spaventata o insicura: solo non voglio. Non ora. Perché sono triste. Forse non si vede, perché quando sono triste io faccio di tutto per rendermi felice. E magari ci riesco. Isterica, chiacchierona, con la battuta pronta. “Ciao sì ne ho fatta fallire un’altra, ha-ha ”. Però il dolore non si nega. Il dolore, a differenza dell’amore, quello lo so scrivere. Ma non è del dolore che ho scritto perché quello, come sempre, è soltanto mio.

Sono stata molto tempo con la sottoscritta ultimamente. Ho fatto aperitivi da sola nei bar, al tramonto, senza libri né compagnia. Ho guardato i volti, ascoltato i rumori. E poi ho ripreso a uscire di casa. È inevitabile. Ci ho puntato all’ascetismo cosmico ma L’immane farsa umana mi ha tirata (di nuovo) dentro. E il loro "bla bla bla" (sì Sorrentino) non è più un fastidio ma un sottofondo desiderato, che zittisce le cose. 

Sono stata sola con me stessa e ho passeggiato, lavorato, letto e pensato molto ai miei (e in parte ai vostri) venticinque anni. Poi ho provato a scriverli. 
Statemi bene.

Vanna