Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni |
Giovane. Ma non troppo. È così che mi sento. È quello che
sono. Giovane, perché ho ancora gli sconti per i musei e perché hanno preso a
chiamarmi “Signorina” invece che “Ehi tu”. In agosto saranno venticinque. Solo
venticinque, come dicono alcuni. Già venticinque? Come dicono altri. Di solito
i nonni. Mia nonna a Pasqua ha acceso una sigaretta, mi ha guardata con immenso
amore e poi ha detto, orgogliosa ma triste “Sei invecchiata”. Poi ha aggiunto
“Sei donna. Ma non esagerare”. Sulla prima affermazione sono quasi contenta,
sia io che lei abbiamo infinita stima dell’invecchiare. E sulla seconda beh… è
vero, sono donna. Di recente sul
treno mi sono seduta tra quattro signore sposate sui quaranta e una classe di
quattordicenni. Vero che non somigliavo alle sciure, ma non somigliavo nemmeno alle tuse. Le ragazzine, bruttarelle ma mai quanto me alla loro età, mi
guardavano curiose. La loro curiosità era del tutto ricambiata: dieci anni fa
non esistevano i leggins. Imbruttivamo i nostri portentosi sederi da
adolescenti in jeans sfasciati, larghissimi e a vita molto bassa. Tutti gli
adolescenti si vestono male. E anche se loro erano fresche, erano scintillanti,
erano giovanissime io sono ben felice
di non essere più una (quella)
ragazzina e quasi contenta di essere “invecchiata”.
Non siamo più noi i giovanissimi. I giovanissimi sono nati
negli anni ’90 e negli “anni zero” (fa strano, vero?). Noi siamo quelli degli
ultimissimi anni ’80 primissimi ’90. Quelli che si affacciano al mondo del
lavoro, di ‘sti tempi, e sappiamo da soli quant’è deprimente. Intorno ai venticinque anni. Giovani. Ma non
giovanissimi. Degli squallidi ibridi. Come una seconda adolescenza senza crescita
sparsa di organi, peli, sudorazioni e sbalzi d’umore. Con qualche lira e, si
spera, qualche risorsa in più. Perché venticinque anni e dintorni non sono
moltissimi, ma qualcosa abbiamo avuto tempo d’impararlo. Abbiamo avuto tempo
d’imparare con Amy Winehouse, inscenando la guerra con le vite degli altri, che
“L’amore è un gioco in cui si perde”. Forse stiamo anche imparando a vestirci.
Venticinque anni non sono solo sesso, droga, alcol e
rock’n’roll (lo sono solo nei vostri ricordi o nei vostri desideri).
Venticinque anni sanno essere anche tristi e soli. Il dolore, come tutto ciò di
cui la vita abbonda, è strano e ineluttabile, in venticinque anni ho imparato
anche questo. Si presenta sotto forme diverse. Sono sempre stata poco incline
al dolore, gli ho preferito la mera rassegnazione che mi tormenta da quando ero
bambina. Lo accetto come tutto, come la morte, come la vita. Il dolore cambia a
seconda delle età e a venticinque anni hai maggiori difese. Il disincanto nei
confronti di cose fallaci come l’amore è già stato superato. Il distacco, l’allontanamento, i dubbi e il
cuore spezzato sono una cosa plausibile, il più delle volte già affrontata o
comunque per me è così. Probabilmente è così anche per voi. Mediamente il primo
amore lo si conosce intorno ai quindici anni, e ne sono già passati dieci.
Abbiamo avuto il nostro tempo per comprenderlo. Sapete di cosa parlo, conoscete
la delusione che si prova quando qualcosa
finisce.
Almeno a venticinque anni il dolore può essere meschinamente evitato
mediante numerosi aperitivi, notti brave e una buona dose di cazzate. A
venticinque anni, se si è fortunati, si è abbastanza vecchi da avere un lavoro
e forse la diversità sta tutta lì. Quando lavori è come se la tua vita fosse
improvvisamente, beh, tua. Io non vivo coi miei genitori dunque dispongo dell’esistenza
quasi del tutto liberamente. Oltretutto il lavoro non ti consente di piangere
con la testa tra le braccia tutti i giorni come quando andavi a scuola o (non)
andavi all’università. Anzi, a mio modestissimo parere è la cura a tutti i
mali, banalmente permette di concentrarsi su altro. Ho avuto modo di imparare anche questo. Che risultati (#sarcasmo).
Il fatto è che sono stata molto tempo con la sottoscritta
ultimamente, da brava psicopatica. Ho avuto modo di fare lunghissime
conversazioni con me medesima, mi sono trovata un po’ pedante ma tutto sommato
divertente e mi sono offerta da bere qualche Martini e concessa piacevoli
libertà che, lo sento, a breve devasteranno per sempre il mio corpo e la mia
anima. No, senza essere drastici: semplicemente a venticinque anni si impara,
come dire, a gestire il dolore. E a trovare una strada. Trovando strade, è una
prassi, si perdono cose. Forse impari a gestire il dolore ma rinunci, d’un
tratto, alla tua parte più morbida e l’amore non lo sai più fare. A differenza
del dolore, non lo sai più gestire. O forse non l’hai imparato, anche se ti
sembra di averlo sempre saputo. Io
l’amore lo so, ma non riesco a scriverlo. Ce n’è stato tanto, tanto davvero in
questa giovane vita. C’è stato anche il resto, le solite cose: il dolore la
rabbia la cattiveria – soprattutto la mia. Eppure io l’amore lo so, e so anche
che finisce. Che è un gioco in cui si perde. Che è un gioco a cui per ora non
voglio più partecipare. Amore, Cupido, Eros, Venere chiunque tu sia. Stammi
alla larga. Lasciami in pace. Non le voglio più le coccole, le gelosie, il
sentirsi completamente responsabili e / o dipendenti da qualcuno che non è
nemmeno un nostro parente, difficilmente è amico di vecchia data eccetera. Non
voglio. Non è che sono ferita, spaventata o insicura: solo non voglio. Non ora.
Perché sono triste. Forse non si vede, perché quando sono triste io faccio di
tutto per rendermi felice. E magari ci riesco. Isterica, chiacchierona, con la
battuta pronta. “Ciao sì ne ho fatta fallire un’altra, ha-ha ”. Però il dolore
non si nega. Il dolore, a differenza dell’amore, quello lo so scrivere. Ma non
è del dolore che ho scritto perché quello, come sempre, è soltanto mio.
Sono stata molto tempo con la sottoscritta ultimamente. Ho
fatto aperitivi da sola nei bar, al tramonto, senza libri né compagnia. Ho guardato
i volti, ascoltato i rumori. E poi ho ripreso a uscire di casa. È inevitabile. Ci
ho puntato all’ascetismo cosmico ma L’immane
farsa umana mi ha tirata (di nuovo) dentro. E il loro "bla bla bla" (sì Sorrentino) non è più un fastidio ma un sottofondo desiderato, che zittisce le cose.
Sono stata sola con me stessa e ho passeggiato, lavorato,
letto e pensato molto ai miei (e in parte ai vostri) venticinque anni. Poi ho
provato a scriverli.
Statemi bene.
Vanna