Settembre 2014
A tu per tu con lo specchio, con immutato rancore. È così
che passerà il suo tempo. Lo passerà a guardarsi; guardarsi male. Le pupille languide, ingrossate e del tutto spente,
lei si guarda (male) e vede, è una carcassa
incastrata nel sottobosco; contempla il riflesso con attenzione morbosa, ostinatamente
nauseata. Non indossa altro che un paio di boxer sgualciti. Siede
immobile e pensa secchio di vermi, carcassa nel sottobosco, calcinacci e
polvere. Siede a gambe incrociate e lo specchio la ritrae nell'interezza, nella
mediocre nudità di un corpo di donna, uno qualsiasi. Non c’è niente di mistico,
niente di erotico in questa domenica fiacca in cui semplicemente sta, ai bordi del letto, seminuda e
struccata, spettinata e triste. Si è recentemente imposta di non fumare in
camera da letto; non ha voglia di alzarsi e quindi si guarda, male. Si biasima per
l’imposizione di questa regola. Si biasima altrettanto per aver osato pensare di violarla. Perché è grande,
grandissima nemica di se stessa e letteralmente scalpita per gettarsi in pasto alla propria perfidia. Se riusciste a vederla come la vedo io,
direste che è stanca. Lo è.
Concede una tregua agli occhi, serra le palpebre ed offre alla
retina qualcosa che non sia il riflesso, carne umana e boxer sgualciti; dimentica
secchio di vermi, carcassa nel sottobosco, calcinacci e polvere. Si protegge
come può, con l’ignoranza e col buio. Nel buio. Non vede più niente, non pensa
più niente. Forse solo alle voci. Tante e gentili. Non dà ascolto alle voci
perché sono buone. Più buone di lei. Il suo riflesso la guarda così male perché
sta pensando carcassa, calcinacci, cavallo
stramazzato. È un delirio insopportabile, una tempesta impazzita di
correlativi-oggettivi. Chiude gli occhi. Per non guardarsi mentre si guarda male.
Per non pensare. Non pensare che più della testa più delle reni più delle ossa
fa male il vivere. Foglia riarsa, statua nel meriggio. Il
lamento straziato di una vecchia, al di là delle pareti, nel vicolo stretto e
buio che conduce alla stazione. Tutto si rivela sempre all'altezza dello
squallore generale ed è ok, è davvero ok, sono anni che fondamentalmente non le
importa. Solo che non sempre sa resistere, capita che si lasci andare al
dolore. Ogni tanto. Quel che basta per sapersi ancora pancia, sangue, cuore.
Viva.
Bella. Sei molto
bella. Come sei bella. Bella. Dentro e fuori. Le voci nel buio. Sono voci
reali, di persone cosiddette vere. Sono voci di uomo, la prima è quella del
Padre. Bella. L’aggettivo si è
presentato con frequenza sempre maggiore con il protrarsi degli anni, del tempo
passato su questo mondo. Ne accoglie il suono con immutata perplessità,
maligno scetticismo. Così è sempre stato, così sarà sempre. Detestarsi è una
cosa seria. È un lavoro metodico, faticoso, da svolgere ogni giorno con
rinnovata energia. Volersi male è la cosa che le riesce meglio. Non c’è
clemenza nei propri confronti che possa accettare. “Clemente con me stessa non
lo sono stata mai”, sentenzia, tra il divertimento e la compassione. Tracotante e magnanima sì, a volte, ma clemente proprio mai. Oggi è
giornata di boxer sgualciti, di digiuno, di accidia travestita da
esistenzialismo ignorante. Oggi non ha niente da fare, non in questo tardo
pomeriggio di domenica. Volersi male esige altissima concentrazione, è un’attività
impegnativa, a cui dedicarsi quotidianamente in perfetto silenzio, meditando, meglio se in piena luce.
“Ho la faccia di chi ha dormito per vent'anni sotto a un
sasso”. Sei così bella. “C’è in me
qualcosa di viscido che si contorce su se stesso. Voi non lo vedete ma io sì.
Andate a farvi fottere.” Patetica deficiente ai bordi del letto, che si guarda
da fuori, si guarda male. Il corpo è pallido, sterile come una pietra. Tutto si rivela sempre all'altezza del proprio squallore, se fosse un
albero direste che è una betulla a ridosso della tangenziale. Ha un ematoma sulle
gambe, un altro sui glutei. Intravede la peluria bionda delle cosce, le
pellicine rosicchiate sulla punta delle dita, le imperfezioni della pelle. Se
potesse, e può, pagherebbe qualcuno; un uomo grande e grosso che le spacchi la
faccia, quell'intollerabile vuoto. “Rompi le ossa, strappa le
braccia, riduci a brandelli il corpo, questo sacco straripante di niente”.
C’è una ragazza nello specchio, che la odia - mentre la ragazza con
gli occhi chiusi è da qualche parte, dentro se stessa. Ci sono posti dentro se
stessi che sono come negozi abbandonati, immensi magazzini chiusi. Calcinacci e
polvere. Luoghi da tempo dimenticati. Non forzerà le serrature e nemmeno voi
dovreste. Perché è pericoloso? No. Entrate pure, ma non c’è niente da vedere. Questo è soltanto il posto dove esibiva le cose più belle, la parte più
vera. “Non è rimasto molto, qui, di quello che una volta era. È
vuoto. È noioso. Non ne vale la pena. Andiamocene. Al parco, ai caffè
letterari, agli eventi esclusivi, ai concerti, alle manifestazioni, andiamo a
divertirci.”
Ed è pensando agli eventi, al parco, ai caffè letterari, ai concerti e alle manifestazioni che si stende, piano, sul materasso caldo dove si addormenta, immediatamente, accompagnata da un vecchio orso di peluche e un esercito silenzioso di fantasmi. Ed è nel sonno che ritrova
tutto, ritrova le cose che servono a tollerare. Tollerare lo specchio. Tollerare la
farsa. Tollerare la vita, il male che fa. Ritrova il padre, sei bella, le albe, l’orgoglio, le sue stesse mani che non graffiano né spolpano ma accarezzano, timide, le tempie di un uomo che dorme. Nelle
lenzuola ritrova, dopo tanta guerra dopo tanto odio, la quiete – che è persino meglio della speranza. Perché il sonno è vita. E la domenica è
terminata.