Doverosa premessa
Il post che segue non è un bilancio del 2012, quest'anno è stato molto altro ma di quell'altro io non parlerò. Il post che segue non è un riassunto di ciò che è avvenuto fuori, è ciò che è avvenuto dentro.
Il treno nuovo apre un varco lento e polveroso nella Brianza Occidentale - io ho finito i libri da leggere e il cellulare giace scarico sul fondo della borsa. Schiaccio il naso contro ai vetri, guardo nelle case, cerco gli oggetti personali incastrati tra i capannoni industriali e i boschi che sopravvivono lugubri nello squallore provinciale.
Ogni casa che vedo è una speranza, un simbolo.
Io sono una di quelle persone sfortunate che non sta bene dove sta, io abito "dove tutto è stato preso".
A volte guardo il mondo da lontano (non è difficile, basta salire in alto, aver voglia di fare le scale, sfidare i balconi) e penso che c'è un posto per me da qualche parte.
Avrò una finestra che da sui binari, e dai binari le persone vedranno qualcosa di mio - le mensole della cucina, un quadro o una fotografia, anche solo un brandello di tenda, e tutto sarà tiepido, pulito e bello.
Stacco il naso dai finestrini, cancello i segni del mio respiro con la manica della giacca.
Il 2012 è stato fallimenti e dolore. Inutile negarlo, tentare apologie dell'ultimo minuto in cui sciacquare mani che sono sporche di sangue e quel sangue è certamente mio - i mesi che vanno da gennaio a giugno sono nei miei ricordi come mesi di malattia.
I sintomi stavano nella frenesia isterica dei gesti quotidiani, nelle mani sporche dalle unghie deboli che cercavano l'ennesima sigaretta e scavavano stanche il mio viso, e poi l'inappetenza, la fame e la debolezza, e quelle mattine pallide in cui persino schiacciare lo sciacquone del water era un'impresa da affrontare con entrambe le braccia. Facevo un bel respiro, e con due mani racimolavo sufficienti forze per scaricare il cesso, poi mi guardavo nello specchio e a stento mi trattenevo dal sputarmi in faccia.
Ricordo Firenze a febbraio, il vento che tagliava la pelle, i silenzi che tagliavano il vento - ricordo Firenze, l'acqua sporca dell'Arno in cui avrei scaraventato la sua faccia ottusa e sorda alle mie disperazioni, e le grida isteriche per trovare un parcheggio, un posto dove mangiare. E la Pasqua passata a piangere nel bagno di casa sua, il viso schiacciato contro al pavimento, le mani inerti abbandonate lungo i fianchi, una voce che mi chiedeva di uscire e un'altra voce (la mia) che m'intimava di non cedere, di non aprire quella porta e vederlo mentire ancora, e Cristo risorgeva e io morivo e non so cosa si provi a morire in Croce, ma so cosa si prova a morirci sotto.
è un' illusione pronta per l'uso da eterna vittima di un sopruso,
abuso d' un mondo chiuso e fatalità
Ci siamo amati fino ai denti, io e lui, e quei denti sapevano mordere e ringhiare, erano zanne buone solo a lacerare - l'anno 2012 giunge alla fine e a me piace pensare di essermi perdonata. Certi amori non sono fatti per durare ma per arrivare come uragani e come uragani distruggere, avvicinare alla morte, all'abisso - è stato un amore così il nostro e l'anno 2012 giunge alla fine a me piace pensare di essermi perdonata. Mi piace pensare che un giorno perdonerò anche lui.
In aprile sono morta, e in maggio ero all'inferno. Bruciava e bruciavo anch'io - ricordo quel giorno in banca, rannicchiata nell'angolo più remoto tra trenta persone in attesa.
"Fate passare la signorina, per favore, non vedete che non sta bene?".
Piangevo sempre all'inferno, nel girone delle signorine che non stanno bene: in banca, in università, in mezzo alla strada, sui mezzi pubblici, nel mio letto piccolo in cui il suo odore se ne andava, lento. Piangevo sempre, e forte, e senza ritegno.
Piangevo come piangono i bambini, nascondendosi il viso e sporcandosi tutti di muco, tra la gente.
Ero all'inferno, dove fa caldo e si ha sempre fame e non si può mai dormire perché il corpo intero grida di dolore e non si fa che piangere e piangere e piangere e sporcarsi di muco tra le facce indifferenti degli altri dannati.
Poscia, più che il dolor potè il digiuno.
E poi non so che giorno fosse, solo il giorno in cui scoprii di non essere all'inferno ma aggrappata con le dita al fango, tra il vuoto e l'abisso. Mi piace pensare che sia stato il sole, e mi piace pensare che sia stato tu. Ritrovai la mia vita in un tuo gesto, nei movimenti che fanno le tue mani quando fumi.
Era giugno, questo lo so. Il giugno più incredibile della mia vita, a metà tra la dannazione e la salvezza, il mondo un inferno e al centro esatto dell'inferno c'eri tu - e io ti volevo più di ogni altra cosa e non facevo che aspettarti, non facevo che camminarti incontro, muovermi nella tua direzione è stata una cosa che ho iniziato a fare quando ancora non sapevo che lo stavo facendo.
Tu eri lì, eri sempre stato lì, solo che dall'inferno brillavi più che mai - e finalmente ti vedevo nella tua interezza e tanto mi è bastato per sapermi ancora viva.
Ed è per questo che la seconda parte del 2012, quella che va da fine a giugno ad adesso sei stato tu. Non sei stato altri che tu. E ti parlo in seconda persona perché è questo che sei, la seconda persona per cui improvvisamente risulta facile, sai, respirare e muoversi, mangiare e dormire. Io e te, esattamente in quest'ordine. E' stato tutto ciò che già sappiamo, è stato trovarsi nel buio e in quel buio vederci, più chiaramente che mai.
Io ti vedo, sai? I segni degli occhiali dopo una giornata di pioggia, il modo che hai di scrivere la lettera D, ogni segno del tempo passato a inciampare in sé stessi nel buio. Tutte cose che conosco già, familiari e nuove - come una canzone dell'infanzia, o il Natale quand'era bello.
Cose dimenticate, eppure sempre sapute - nuove, pulite, concrete.
Ho visto i tuoi occhi dormire sotto le ciglia ad ogni stagione, e ad ogni stagione muoversi per spazi diversi, dimensioni sconosciute dell'essere - mi chiedo come saranno in primavera, mi piace immaginarti senza segni degli occhiali, le ciglia impolverate di pollini.
Il 2012 sei stato tu - che hai preso posto là dove stavano i vuoti di sempre.
Febbraio 2012 |
Dicembre 2012 |
Marzo 2012 |
Dicembre 2012 |
Maggio 2012 |
Non c'è stato molto altro, "è quasi tutto laggiù".
Stacco il naso dai finestrini, cancello i segni del mio respiro con la manica della giacca.
Non faccio i buoni propositi, che poi ci pensa la vita a mandarli a puttane - e ho disimparato a pregare, ma sono diventata brava nel prendermi ciò che mi serve, nel rubare quando si ha fame.
Per il 2013 chiedo poco, quasi niente, solo scudi ed armi nuove.
Per il 2013 chiedo di ricordarmi ogni giorno che si vive per vedere i dolori del presente passati, e che non tutto ciò che amo è lì per essermi portato via.
Per il 2013 chiedo la Fede (rara e preziosa) degli atei, quella che non crede in niente ma pensa valga la pena di battersi per tutto, gli atei che non usano la mancanza di un Dio per fare ciò che vogliono ma per fare agli altri ciò che vorrebbero fosse fatto loro, gli atei che rispettano ogni religione con la stessa positiva indifferenza, gli atei che credono nell'uomo come prodotto stesso dell'uomo, nei secoli dei secoli e questo così sia.
Per il 2013 chiedo lavoro, doveri, responsabilità - chiedo di sapere cosa significhi il crescere come esperienza positiva, non solo attraverso i dolori ma anche e sopratutto attraverso ciò che di nuovo ti scopri in grado di fare (usare Excel, tagliare 30 centimetri di capelli, amare ancora).
Per il 2013 auguro le stesse cose a ognuno di voi - felice anno nuovo, con tutto il cuore.